sabato 22 novembre 2014

LA BUSSOLA

Per orientarsi nel nostro blog:
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> Per seguire i nostri progressi e le nostre attività, la nostra pagina Facebook è: Progetto Bulé.



Nell'illustrazione della testata: si chiama UnBRELLA, ed è stato inventato dal designer giapponese Hiroshi Kajimoto. La sua caratteristica principale è che è praticamente montato al contrario. Ha qualche vantaggio: intanto, si chiude dall’altra parte, così quando si sale in macchina dopo averlo chiuso il bagnato resta dentro e non si inzuppano i pantaloni o il sedile. Poi, quando è bagnato e lo si chiude o lo si riapre, non si lava la gente intorno. Per finire, non avendo le bacchette dentro, non si picchia la testa nei ferretti.
Ma quello che interessa a noi, è che dimostra come anche le cose che abbiamo sempre fatto nel solito modo, possano essere fatte diversamente. E magari funzionano pure meglio.
UnBRELLA è world © h-concept - All rights reserved

LO STATO DELLE COSE


     Ci abbiamo provato.
     In anni giovanili e nella piena maturità. Ci siamo “sporcati le mani” militando in partiti, movimenti e associazioni; partecipando a congressi, assemblee, convegni e competizioni elettorali; organizzando eventi e cortei; andando in piazza, sui giornali, in tivù e su internet. Alla fine abbiamo capito che non serviva a niente.
     Finché la politica sarà ostaggio dei partiti e, soprattutto, di un sistema elettorale solo apparentemente democratico, il cittadino non conterà niente.
     Del resto tutto si gioca sulla legge elettorale, ce lo insegna la storia moderna: se qualcuno ha voluto prendere il potere, la prima cosa che ha fatto è stato cambiare la legge elettorale; lo fece Napoleone, così come Mussolini, tanto per citare due nomi piuttosto significativi.
     Ma per noi la politica è quella di coloro che la fanno in prima persona; per noi la politica deve essere un servizio civile a tempo, che possa uscire quindi  dalla logica dell'eterna campagna elettorale, che inevitabilmente ha come obiettivo non il bene comune, ma solo la rielezione dei candidati e la perpetuazione del potere dei partiti.
     Noi diciamo no a una politica intesa come capacità di manipolazione e come ipocrisia; diciamo invece sì a una politica che sia semplice gestione della cosa pubblica, al fine di migliorare le condizioni di vita di tutti i cittadini.
     La storia ci ha anche insegnato che il professionismo non ha mai giovato alla gestione della cosa pubblica. Tutti ricordiamo le celebri invettive di Petrarca e di Machiavelli contro le milizie mercenarie. Altro tema, si dirà, ma il nocciolo è lo stesso: i professionisti conoscono la tecnica, ma non ci mettono il cuore; i professionisti pensano soprattutto al denaro. Dunque liberiamo la politica dai politici di professione, rendiamole la dignità che ha perso, eliminiamo gli sciacalli e i piranha.
     La natura umana è debole, lo si sa, e non deve esserle data l'occasione di cadere nelle trappole del potere, del denaro e delle amicizie tra potenti.
     Ma come evitarlo? Ve lo spieghiamo qui di seguito.


DEMOCRAZIA, CHI SEI?

     La democrazia è una forma di Stato che, nella versione con parlamento elettivo che conosciamo ai nostri giorni, si è via via affermata in modo particolarmente significativo negli ultimi due secoli.
     Il primo parlamento democratico conosciuto è di fatto un'assemblea, l’Althing, istituita in Islanda nel 930 d.C.; un altro è quello della confederazione delle Cinque Nazioni Civilizzate dei nativi americani. Si tratta dell'alleanza Haudenosaunee che si strinse fra i cinque popoli Irochesi presenti in quella che oggi è conosciuta come la regione dei Grandi Laghi nel Nordamerica. Le nazioni/popoli in questione sono i Cayuga, gli Onondaga, gli Oneida, i Mohawk e i Seneca. Quando si aggiunse alla confederazione la nazione/popolo Tuscarora, l'alleanza prese il nome di Sei Nazioni. Non fu l'unica nel Nordamerica; ci furono anche la Lega degli Huroni (appartenenti alla famiglia linguistica/etnica Irochese) e l'Unione del Creek.
     I Choctaw e i Chickasaw fondarono lungo il corso del Mississippi due floridi stati repubblicani. Avevano uno straordinario interesse per tutti i tipi di civiltà umana; di quella occidentale adottarono solo ciò che era in linea con la loro tradizione culturale. In questo modo dettero vita a una forma sociale unica al mondo, che fondeva gli elementi migliori della democrazia amministrativa, del comunismo economico e della ricerca della libertà individuale.
     Bertrand Russell, nella sua “Storia della filosofia occidentale”, ci ricorda che anche la Chiesa ha conosciuto teorie di governo democratico: “Marsilio da Padova (1270-1342) sostiene che il legislatore dev’essere la maggioranza del popolo, e che la maggioranza ha il diritto di punire i prìncipi. Applica la sovranità popolare anche alla Chiesa, in cui pure il laicato dovrebbe far sentire la sua voce. Dovrebbero esserci concili locali di popolo con la partecipazione dei laici, e in questi concili si dovrebbero eleggere i rappresentanti ai concili generali. (...) Non devono esserci scomuniche senza l’intervento popolare; e il papa non deve avere poteri speciali.”
     Tuttavia, nell'arco di più di due millenni il concetto di democrazia ha vissuto una continua evoluzione, subendo importanti modificazioni nel corso della storia, e non tutte incentrate sulle elezioni. Vediamone qualcuna particolarmente interessante, cominciando dall’antica Grecia e dalle categorie aristoteliche.
     Il filosofo di Stagira distingue fra varie forme di governo: monarchia (governo del singolo), aristocrazia (governo dei migliori) e timocrazia (governo dei censi aventi diritto), che secondo il filosofo rischiavano di degenerare rispettivamente in dispotismo, oligarchia (governo di un'élite), e democrazia (potere del popolo). Nell'antica Grecia la parola democrazia nacque come espressione dispregiativa utilizzata dagli avversari del sistema di governo di Pericle. Infatti kratos, più che il concetto di governo (designato da archìa) rappresentava quello di "forza materiale" e, quindi, "democrazia" voleva dire, pressappoco, "dittatura del popolo" o "della maggioranza". I sostenitori del regime ateniese utilizzavano altri termini per indicare come una condizione di parità fosse necessaria al buon funzionamento di un sistema politico: isonomia (ovvero eguaglianza delle leggi per tutti i cittadini) e isegoria (eguale diritto di ogni cittadino a prendere parola nell'assemblea). Peraltro, a queste forme di eguaglianza si legavano i principi di parresìa (libertà di parola) ed eleutherìa (libertà in genere).


Nell’immagine sopra, il Buleuterio, dove si riuniva il Consiglio chiamato Bulé. In Atene, al tempo di Solone, la Bulé s'adunava nel Oritaneo. Con la riforma di Clistene fu costruito un apposito edificio nell'agorà del Ceramico, mentre i pritani si adunavano nella vicina tholos.


IN PRINCIPIO FU ATENE
     Nel 510 a.C. Atene introdusse un innovativo sistema politico basato sulla partecipazione di tutti alla gestione degli affari pubblici: la democrazia. La paternità della soluzione è storicamente attribuita a un arconte, Clistene, che proseguì e completò il lavoro compiuto quasi un secolo prima da Solone. Con la riforma di Clistene la popolazione venne suddivisa in base al territorio. Le circoscrizioni amministrative sul territorio (demi) erano poste sotto il potere di un capo (demarco). I demi erano raggruppati in trittie e infine queste ultime componevano le tribù. Il governo restava nella mani di nove arconti, questi erano però nominati per sorteggio da una lista di candidati preparata dai demi.
     Le tribù avevano anche il compito di nominare cinquanta rappresentanti per formare un organo collegiale, la Bulé, con funzioni di controllo sulle attività del governo. L'esercito era posto sotto il controllo di uno stratega, anch'esso nominato dalle tribù. L'incarico di stratega era l'unico a non essere affidato tramite il criterio del sorteggio. Pur essendo scelto dalle tribù lo stratega doveva vantare una comprovata esperienza. I cittadini della polis avevano la facoltà di riunirsi in assemblea (ecclesia) per discutere ogni argomento di interesse pubblico, e il potere di sentenziare l'esilio di un singolo cittadino tramite l'istituto dell'ostracismo. L’estrazione a sorte riguardava gran parte di determinate cariche (magistrature) e prescindeva da un’eventuale “misurazione” delle capacità richieste. Gli incaricati erano volontari e, soprattutto, erano passibili di giudizio e di possibili condanne sia durante che al termine del proprio mandato annuale. Alle cariche assegnate per sorteggio se ne affiancavano altre, di tipo elettivo, in genere quelle più rilevanti in cui la competenza era considerata un elemento imprescindibile (dal V secolo quelle dei generali, le più alte magistrature finanziarie, ecc.). In questo caso era prevista la rielezione.
     Nel 425 a. C. prende il potere Pericle, eletto stratega per ben quindici volte. Ciò fa riflettere circa l’eccezionalità delle sue strategie, riconducibile sia alla sua figura di stratega ex apantog (sopra tutti) con più ampi poteri sia in politica interna che estera, sia al suo grande prestigio personale: "...egli era il solo che lasciava dietro di sé un aculeo in chi lo ascoltava…" dice infatti Eupoli. Fu uno dei maggiori apportatori di riforme democratiche, introducendo la mistoforia (remunerazione per chi ricopriva cariche pubbliche); questa forma di “remunerazione per le funzioni pubbliche” non si riferisce ai politici di professione, che nell’antica Atene non esistevano, bensì al pagamento di piccole somme al cittadino comune che veniva scelto per svolgere la funzione di giurato in un processo o che semplicemente partecipava all’assemblea. Erano i poveri a venire incoraggiati dallo Stato a partecipare alla democrazia, tassando le città conquistate o i ricchi. Pericle fu coerente nel perseguire la reale partecipazione politica dei ceti bassi, anche mediante l’elevazione del livello culturale del popolo ateniese. Inoltre diede impulso a una forte politica sociale. Ai suoi tempi l’assemblea era sovrana e i membri del Consiglio dei Cinquecento “restavano in carica per un anno e si poteva entrare a farne parte solo due volte nel corso della vita. Anche quasi tutte le magistrature erano ricoperte da persone scelte a sorte”. (Moses Finley, “L'economia degli antichi e dei moderni”, Laterza, 2010).

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
(Pericle - Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.) 

LEX ROMANA
     Se non nel governo, almeno nei compiti della magistratura anche Roma presentava alcune interessanti caratteristiche.
     Per cominciare, le magistrature della repubblica romana si distinguevano per varie caratteristiche: elettività, annualità, collegialità, diritto di veto e responsabilità. In particolare l'annualità derivava dal timore che la gestione di una carica, protraendosi oltre un anno, potesse indurre chi l'occupava a crearsi, come oggi si direbbe, una situazione di potere tale da costituire un pericolo per la libertà degli altri cittadini. Naturalmente la limitazione della carica a un anno poteva portare di conseguenza che un magistrato non potesse condurre a termine un'opera per la quale egli era particolarmente adatto: a tale inconveniente si poneva talvolta rimedio col concedere al console e al pretore di continuare le sue funzioni, anche dopo deposta la carica, con la qualifica di proconsole o propretore.
     La collegialità, cioè il dover gestire una carica non da solo, ma insieme con uno o più colleghi, era un'altra limitazione del potere di un magistrato, derivante anch'essa dalla preoccupazione che chi governava da solo, senza controllo, potesse abusare della carica a danno dei singoli cittadini.
     Connesso con la collegialità era il diritto di veto, pur esso diretto a limitare il potere dei pubblici magistrati. Infatti, quando un magistrato non approvava l'azione del suo collega poteva fermarne l'esecuzione opponendo il suo veto; il che poteva causare la paralisi di ogni attività. Per rimediare a tale inconveniente i magistrati o comandavano a turno (un mese l'uno, un mese l'altro) oppure si ripartivano i compiti da eseguire in modo che nessuno fosse di ostacolo all'altro. Un magistrato non poteva essere deposto dalla carica prima che scadesse il tempo stabilito per la sua durata e, sebbene potesse essere processato per comportamento illecito, ciò in pratica non accadeva mai. Uscito però di carica, il magistrato tornava a essere un cittadino qualunque e poteva quindi essere chiamato in tribunale a rendere conto di quanto aveva operato durante la carica.

LA SORTE TRA I CANALI
     L’uso del sorteggio lo ritroviamo a Venezia all’epoca delle Repubbliche Marinare.
     Il Doge, supremo magistrato della Repubblica, era eletto a vita e la sua elezione avveniva con un complicatissimo sistema di votazioni e ballottaggi (estrazioni a sorte), seguito dall'incoronazione davanti al popolo.
     L'aristocrazia veneziana era una categoria sociale relativamente aperta: a essa si poteva accedere per grandi meriti e servigi offerti alla Repubblica. In pochi casi, per rimpinguare le finanze in tempo di guerra, la Repubblica vendette l'iscrizione al "libro d'oro" dell'aristocrazia. L'aristocrazia non era solo una classe di privilegiati, ma anche di servitori professionisti dello Stato, educati nell'università di Padova. Infatti i nobili veneziani lavoravano nell'amministrazione anche come segretari di ufficio, contabili, capitani di porto, e anche giudici.
     Per impedire il concentrarsi del potere in poche mani, garantire un certo ricambio e consentire al maggior numero di aristocratici di avere un impiego, tutte queste cariche erano di breve durata, spesso di un solo anno. Erano sovente mal pagate, tanto che molti nobili sopravvivevano grazie all'assistenza pubblica per gli aristocratici poveri.

> La democrazia ateniese (...) era, sotto certi aspetti, più democratica di qualsiasi sistema moderno. I giudici e la maggior parte del dei funzionari del potere esecutivo erano estratti a sorte ed effettuavano il servizio per brevi periodi: essi erano quindi cittadini medi, come i nostri giurati.
> Oltre ai re, al Consiglio degli Anziani e all’Assemblea, vi era un quarto braccio governativo, peculiare di Sparta. Erano i cinque èfori. Questi venivano scelti tra l’intera cittadinanza con un metodo che (...) era praticamente l’estrazione a sorte. Gli efori erano la suprema corte civile, ma sopra i re avevano anche la giurisdizione penale.
> Il concetto di democrazia era sotto molti aspetti più radicale del nostro: per esempio Aristotele dice che eleggere i magistrati è un modo di procedere oligarchico, mentre è democratico tirarli a sorte. Nelle democrazie radicali, l’assemblea dei cittadini era al disopra della legge, ed era pienamente libera di decidere ogni questione. I tribunali ateniesi erano composti d’un gran numero di cittadini scelti mediante sorteggio e non guidati da nessun giurista.
(Bertrand Russell, “Storia della filosofia occidentale”)
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Nell'immagine qui sopra, Bertrand Russell nell’interpretazione di Normal Rockwell

ELIMINIAMO I PARTITI!


> L’idea di partito non rientrava nella concezione politica francese del 1789, se non come quella di un male da evitare. Ma giunse il momento del club dei giacobini. Era questo, inizialmente, soltanto un luogo di libera discussione. A trasformarlo non fu una qualche specie di meccanismo fatale: fu soltanto la pressione della guerra e della ghigliottina a farne un partito totalitario. Le lotte tra fazioni nel periodo del terrore furono governate dal pensiero così ben formulato da Tomskij: “un partito al potere e tutti gli altri in prigione”.
Così, sul continente europeo, il totalitarismo è il peccato originale dei partiti.
Furono da un lato l’eredità del terrore, dall’altro l’influenza dell’esempio inglese a insediare i partiti nella vita pubblica europea. Il fatto che esistano non è in alcun modo un motivo per conservarli.

> (...) bisogna innanzitutto riconoscere quale sia il criterio del bene. Non può essere rappresentato che dalla verità, dalla giustizia e, in seconda battuta, dall’utilità pubblica.
La democrazia, il potere della maggioranza, non sono un bene. Sono mezzi in vista del bene, stimati efficaci a torto o a ragione.

> Per raggiungere questo fine (rendere la verità e la giustizia materialmente più forti del crimine e dell’errore, NdR) è necessario un meccanismo adatto. Se la democrazia costituisce tale meccanismo, è buona. Altrimenti no.

> La (...) condizione è che il popolo sia chiamato ad esprimere il proprio volere riguardo ai problemi della vita pubblica, e non solamente a operare una scelta di persone.
Meno ancora la scelta di collettività irresponsabili. Poiché la volontà generale non ha alcuna relazione con una scelta di questo genere.

> (...) non abbiamo mai conosciuto nulla che assomigli, neppure da lontano, a una democrazia. Nella cosa a cui attribuiamo questo nome, in nessun caso il popolo ha l’occasione o i mezzi per esprimere un parere su alcun problema della vita pubblica.

> Come dare realmente agli uomini (...) la possibilità di esprimere, talvolta, un giudizio sui grandi problemi della vita pubblica? Non è facile concepire delle soluzioni. Ma è evidente, dopo un attento esame, che qualunque soluzione implicherebbe innanzitutto la soppressione dei partiti politici. 
Per apprezzare i partiti politici secondo il criterio della verità, della giustizia, del bene pubblico, conviene cominciare distinguendone i caratteri essenziali. è possibile elencarne tre:
- un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva.
- un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte.
- il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la propria crescita, e questo senza alcun limite.
Per via di questa (...) caratteristica, ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade solo perché quelli che lo circondano non lo sono di meno.

> Un partito è, in linea di principio, uno strumento destinato a servire una certa concezione del bene pubblico. Questo fatto è vero anche per quelli che sono legati agli interessi di una categoria sociale, poiché esiste sempre una certa concezione tra il bene pubblico e quegli interessi. Ma è una concezione estremamente vaga. Questo è vero senza eccezione e quasi senza differenza di grado. I partiti più inconsistenti e quelli più rigidamente organizzati sono identici quanto a vaghezza della dottrina.

> Quando in un paese esistono i partiti, ne risulta prima o poi uno stato delle cose tale che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari pubblici senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco. Chiunque si interessi alla cosa pubblica desidera interessarsene efficacemente. Cosi, chiunque abbia un’inclinazione a interessarsi al bene pubblico o rinuncia a pensarci e si rivolge ad altro, o passa dal laminatoio dei partiti. Anche in questo caso sarà preso da preoccupazioni che escludono quella per il bene pubblico.

> (...) il meccanismo di oppressione spirituale e mentale proprio dei partiti è stato introdotto nella storia dalla chiesa cattolica, nella sua lotta contro l’eresia. (...) La riforma e l’umanesimo rinascimentale (...) hanno largamente contribuito a formare, dopo tre secoli di maturazione, lo spirito del 1789. Ne è risultata, dopo un certo intervallo, la nostra democrazia fondata sul gioco dei partiti, ognuno dei quali è una piccola chiesa profana armata della minaccia della scomunica.

> La conclusione è che l’istituzione dei partiti sembra proprio costituire un male senza mezze misure. La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. è perfettamente legittima nel principio e non pare poter produrre, a livello pratico, che effetti positivi.

(da: “MANIFESTO PER LA SOPPRESSIONE DEI PARTITI POLITICI” di Simone Weil, pubblicato per la prima volta nel numero 26 del 1950 della rivista francese La Table Ronde; scaricabile in rete QUI)


Simone Adolphine Weil 
(Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943)
E' stata una filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla vasta produzione saggistico-letteraria, alle drammatiche vicende esistenziali che ella attraversò, dalla scelta di lasciare l'insegnamento per sperimentare la condizione operaia, fino all'impegno come attivista partigiana, no-nostante i persistenti problemi di salute. Sorella del matematico André Weil, fu vicina al pensiero anarchico e all'eterodossia marxista. Ebbe un contatto diretto, sebbene conflittuale, con Lev Trotsky, e fu in rapporto con varie figure di rilievo della cultura francese dell'epoca. 

ELEZIONI, UNA FAVOLA MODERNA


C'era una volta un Reame di cui non ricordo il nome.
Gli abitanti di quel posto, per scegliere i propri governanti, avevano costruito un grande edificio chiamato Castello Elettorale. Vi si poteva entrare solo a bordo di  un Carro. Ce n’erano di grandi e piccoli, tutti chiamati Carri delle Idee, perché per convincere più persone possibile a dare una mano a costruirlo e salirci sopra, ciascun gruppo prometteva qualcosa a chi aiutava. Alcuni promettevano di difendere sempre la Patria e di educare i ragazzi a suon di bacchettate sulle mani e sul sedere; altri giuravano che una volta conquistato il Trono avrebbero tolto i soldi ai ricchi per darli ai poveri; altri promettevano droghe libere o aiuti per i mercanti. E ognuno riempiva il proprio carro di bandiere dai colori accesi.
All’interno del Castello, in un grande piazzale, c’era una Pesa Pubblica sulla quale salivano a turno i Carri. Gli occupanti del Carro che risultasse pesante quanto tutti gli altri messi insieme più un chilo, avevano il diritto di nominare il Re e i suoi Cortigiani.
  Naturalmente, ogni gruppo cercava di costruire il Carro più grosso e pesante, e di farci salire sopra quante più persone era possibile. Nonostante gli sforzi di tutti, nessun carro riusciva a raggiungere il peso necessario.
In un primo tempo, per ovviare a questo problema, si stabilì che, dopo la Pesa, i Carri si potevano accordare e sommare il loro peso fino a raggiungere quello occorrente; gli occupanti dei Carri alleati sceglievano poi insieme il Re e i Cortigiani.
Col passare del tempo, questo sistema si dimostrò sempre meno efficace: i piccoli carri, indispensabili per raggiungere il peso richiesto, diventavano sempre più prepotenti e pretendevano di scegliere addirittura il Re.
Si pensò così di cambiare le regole: i gruppi disposti ad allearsi tra loro dovevano accordarsi fuori dal Castello ed entrarvi a bordo di un unico Carro, detto di Coalizione. Si decise anche di eliminare alla radice il problema dei piccoli Carri prepotenti imponendo un peso minimo da raggiungere per poter partecipare alla competizione.
Questo portò a una conseguenza inevitabile: a gareggiare rimasero solo due, giganteschi Carri. Nonostante ciò, ancora una volta i risultati non furono quelli sperati: anche se finalmente si riusciva a mettere insieme Carri di Coalizione del peso necessario, appena terminata la Pesa i diversi gruppi che componevano il Carro vincitore cominciavano a litigare fra di loro, rendendo impossibile qualsiasi attività di governo. Come se non bastasse, la litigiosità dei vari gruppi rendeva necessario ricorrere sempre più spesso a nuove Pese. E non era neanche il peggiore dei problemi: gli organizzatori dei Carri, infatti, ben sapendo che per raggiungere i posti di comando che consentivano loro di arricchirsi (molti, spesso rubavano direttamente dalle Casse del Tesoro) dovevano vincere la gara della Pesa Pubblica, non impiegavano tutte le loro forze e ingegno nella ricerca di soluzioni per i problemi del Reame, ma solo nello studio di metodi, alleanze e trucchi per poter battere gli avversari alla successiva competizione.
Il Reame, privo di una reale guida, andava sempre più in malora.
I sudditi, che per lungo tempo avevano creduto alle parole e alle promesse degli Organizzatori dei Carri, a un certo punto cominciarono in gran numero a rendersi conto della situazione. Sentendosi presi in giro, smisero di avere fiducia nei Carri delle Idee.
Gli Organizzatori se ne accorsero, e inventarono i Carri delle Persone: visto che le Idee non contavano più niente, misero di volta in volta alla guida dei vari Carri il Tale e il Tal Altro. Questi, pur continuando a lanciarsi ancora in promesse sempre più mirabolanti, si affidavano soprattutto al proprio fascino personale per conquistare i sudditi. Per qualche anno la nuova strategia funzionò. I Carri venivano costruiti e si riempivano di gente, senza che questo cambiasse però in alcun modo le cose.
Alla sera, nelle osterie e nelle taverne, i sudditi tornarono a mugugnare con sempre maggior forza e convinzione: la colpa era degli Organizzatori dei Carri! Erano tutti bravi a parlare quanto a rubare, ma nessuno si occupava davvero dei problemi del Reame!
Un Giullare, che in passato era stato al servizio di più d’un Re, cominciò a fare il giro di quei locali. Saliva su un tavolo o su un bancone ripetendo quelle stesse cose. Conosceva il suo mestiere, e le sue esibizioni ebbero un gran successo. La gente rideva e la rabbia cresceva. Erano così tanti quelli che ormai lo ascoltavano e correvano alle taverne dove sapevano che avrebbe parlato, che il Giullare un bel giorno pensò che forse si poteva organizzare un Carro dei Sudditi. E, in questo modo, far piazza pulita di tutta la congrega dei Professionisti dei Carri, bugiardi e ladri.
Sull’onda dell’entusiasmo popolare il suo Carro riuscì a pesare un terzo del totale, ma non servì a niente: gli altri due Carri, anche se si erano osteggiati fino al giorno prima della Pesa, si allearono e ancora una volta decisero loro chi sarebbe stato il Re.
Il Giullare capì che se voleva batterli, doveva riuscire a mettere insieme un Carro che pesasse come gli altri due insieme più un chilo, e alla successiva Pesa, per convincere più persone possibile, cominciò a promettere tutto e il contrario di tutto. Senza risultato.
I sudditi si erano resi conto che anche lui era diventato come gli altri, e che non era questione di Idee, né di bandiere, di Carri o di Organizzatori: il problema era proprio il Castello Elettorale. Finché il Re e i Cortigiani fossero stati scelti col sistema della Pesa Pubblica, niente sarebbe cambiato.

EPILOGO
Così alcune persone, armate di mazzuolo e scalpello, andarono sul retro del Castello e cominciarono a scalzare via una dopo l’altra le pietre con cui era costruito. Per demolirlo completamente ci sarebbe voluto molto tempo, ma alla fine ci sarebbero riusciti. E, intanto, potevano cominciare a pensare a un sistema diverso e più efficace per scegliere chi doveva governare il Reame.
Una sera, dopo aver mazzuolato tutto il giorno, mentre si rilassavano giocando a tombola, tirando fuori i numeri dal sacchetto uno di loro si illuminò in volto e disse: “Sapete? Forse mi è venuta un’idea...”

DEMOCRAZIA A SORTE


     E' venuto il momento di superare la democrazia rappresentativa, che ha fallito.
     Quella che chiamiamo democrazia, forse lo è solo nel senso dispregiativo che ebbe agli inizi in Grecia (v. pagina 4); infatti è ormai definitivamente degenerata in una “dittatura oligarchica” - quando non addirittura personalistica - nella quale è saltato ogni possibile rapporto di fiducia tra governati e governanti. Per non parlare dei partiti, ridotti a zombi che non accettano di essere morti e continuano ad aggirarsi nel panorama politico nutrendosi dei cervelli delle persone.
     E' dunque ora di approdare finalmente a una vera democrazia, o meglio a una demarchia (governo del popolo) che, come ai tempi della polis ateniese, si fondi sull’estrazione a sorte. Come si vede, la soluzione è a portata di mano e la storia ci insegna: partiti? Corruzione? Sete di potere? Professionisti della politica? Tutto cancellato con un colpo di spugna! Basta tornare alle origini e dare, ridare al popolo, tutto il popolo, il potere di decidere. Accompagnando al sorteggio il carattere della temporaneità e della rotazione degli incarichi. Un diritto per tutti, un dovere di tutti.
E' così che le generazioni future dovranno percepirlo: come un sacrosanto diritto, sì, ma anche e forse soprattutto come un dovere, talvolta pesante, sicuramente impegnativo, come la naja di una volta o il compito a cui ancor oggi i giudici popolari sono chiamati. Un momento particolare della propria vita. Niente di clamoroso, niente  che faccia insuperbire. Semplicemente un periodo di servizio allo Stato, cioè a sé stessi. Scomparirebbero così le pompe magne, l’arroganza, le scorte, i lussi, le ruberie.
  Che c’è di più semplice? Oggi la tecnologia, con la rete, tra l’altro ci facilita in questo progetto perché ci consente di affiancare alla Bulé di estratti a sorte la partecipazione alle decisioni più importanti di una Ecclesia che può arrivare a comprendere, oggi sì, veramente tutti i cittadini.
  Come avete visto nelle pagine precedenti, il sorteggio in politica è tutt’altro che una novità. Già Montesquieu, ne “L’Esprit des lois”, indica la natura costitutivamente democratica dell’estrazione a sorte a fronte di quella aristocratica delle forme rappresentative. L’estrazione, secondo il grande ideologo, previene l’invidia e conferisce a ogni cittadino “una probabilità ragionevole di esercitare una funzione pubblica”. Rousseau, poi, ne “Il Contratto sociale” sostiene che l’estrazione a sorte è preferibile alle elezioni in quanto consente di prendere decisioni senza che interferiscano volizioni particolari, dunque attenuando forme di “corruzione”.
  Interessante, a latere, è anche l’opinione di Pierre Bourdieu sul carattere artificioso dell’opinione pubblica ridotta a “opinione sondata”. Anche perché sono i tratti della personalità – di una personalità mediatizzata – amplificata a dismisura dai nuovi media, in particolar modo dei leader, a determinare le opzioni elettorali.
  Bernard Manin in “Principi del governo rappresentativo” (2010) ci ricorda che “Dall'Atene antica a Montesquieu, da Aristotele a Rousseau, nessuno ha mai considerato le elezioni strumento democratico per eccellenza. La migliore espressione della democrazia è stata vista, semmai, nell'estrazione a sorte, garanzia di rigorosa uguaglianza. Per converso, esiste un'irriducibile componente aristocratica nel governo rappresentativo dei moderni, in origine ritenuto sostanzialmente diverso dalla democrazia.” Sostiene poi che: “(...) i rappresentanti non possono mai affermare con piena fiducia e certezza: "noi siamo il popolo"” e aggiunge: “sia l’autogoverno del popolo, sia la rappresentanza assoluta hanno come effetto l’abolizione della di-stanza fra coloro che governano e coloro che sono governati”.
  Sul sito www.homolaicus.com, parlando del libro di Hans Hermann Hoppe, “La democrazia, il dio che ha fallito”, Filippo Matteucci scrive che il titolo dell’opera “è arbitrario se applicato al significato essenziale del concetto di "democrazia" (...). Il fallimento nelle intenzioni di rendere il popolo sovrano è caso mai ascrivibile alla democrazia elettiva, delegata. E questo non stupisce di certo. Da che mondo è mondo, chi delega potere, perde potere. Negli ultimi due secoli il popolo non è stato mai sovrano. Semplicemente una borghesia di bassa qualità e spesso dedita a traffici criminali ha tolto il potere ai re e ai nobili che lo detenevano in precedenza. Questo ha significato un regresso di civiltà, un peggioramento della qualità dei governanti. Se la qualità di governanti, di monarchi e aristocratici era talvolta mediocre, la qualità di governanti dimostrata dai modern days kings, ovvero dalle famiglie della grande imprenditoria e della criminalità organizzata, è conclamatamente infima, peggiore. Il popolo, in questo passaggio di potere dall'aristocrazia ai dominanti di oggi, ha svolto o l'imbelle ruolo di spettatore passivo, o quello di marionetta di rivoluzioni e manifestazioni di piazza, marionetta di cui altri tiravano i fili. Si può quindi parlare di fallimento della democrazia nel senso di fallimento della democrazia elettiva, delegata. La tanto sbandierata democrazia elettiva è solo forma, fumo che nasconde una dura sostanza fatta di tirannie oligarchiche prive di ogni virtù, che controllano tutto, anche la mente della gente. I parlamenti altro non sono stati che ben nutriti assembramenti di maggiordomi e lacchè dei padroni del momento, più che di zelanti e diligenti rappresentanti del popolo. Le tecniche di nomina dei parlamentari, dal voto di scambio alla socializzazione dei costi del consenso, sono state appositamente studiate per ottenere questo risultato, per far permanere il potere nelle mani delle famiglie dominanti.”
Possiamo aggiungere, in chiusura di questa sezione, che anche in politica si dovrebbe forse applicare il famoso principio del “rasoio di Occam” formulato nel XIV secolo dal filosofo e frate francescano inglese William of Ockham: “E' inutile fare col più ciò che si può fare col meno”, che suggerisce l'inutilità di impelagarsi in metodologie complicate e disfunzionali come quelle della democrazia elettiva, se per ottenere lo stesso risultato è sufficiente un sistema più semplice come quello dell’estrazione a sorte.

Ma la soluzione c’è. Si chiama estrazione a sorte. Ha il vantaggio di eliminare i costi delle campagne elettorali, di riportare le città a una normalità estetica (anche l’occhio vuole la sua parte). I cittadini per partecipare dovrebbero avere alcuni requisiti minimi, come la residenza, la maggiore età, la fedina penale pulita, non avere processi in corso, non essere mai stati sorteggiati in precedenza, una competenza di base sull’argomento per cui si propongono. Le mamme incensurate potrebbero candidarsi per l’assessorato alla famiglia, i medici per la salute, i vigili urbani e i tassisti per il traffico, i responsabili di condominio per la carica di sindaco. L’estrazione dovrebbe essere gestita da un pool di magistrati con la consulenza di Collina. Avremmo dipendenti al posto di politici, politica al posto di interessi personali. C’è un comune in Italia che vuole provarci? Batta un colpo! 
Beppe Grillo

“Se le riunioni di quartiere eleggeranno i delegati, si potrà essere certi che questi rappresenteranno le opinioni della maggioranza.”
Gail rimase allibita. “E le opinioni della minoranza? Chi le rappresenterebbe?”
Endecott tagliò l'aria con un gesto impaziente. “Oh, be', la minoranza dovrebbe comunque ottenere dei delegati. E nessuno le impedirebbe di diventare magggioranza a sua volta. Non vedo perché dovrebbe essere un problema. Alla fine tutto si aggiusta, come hai detto tu per il sorteggio.”
“Ma è ridicolo. Questo è completamente diverso” controbatté Gail. “Tirare a sorte è equo, anche se a volte può uscire un risultato anomalo. Con le elezioni non fai che creare il problema della minoranza, e non solo quello. Partiti, soldi, notorietà, corruzione, tanto per dirne alcuni. Che possibilità rimarrebbero alla gente comune, che possibilità avremmo di farci ascoltare, di contare davvero? Le elezioni non hanno nulla di democratico, anzi, sono chiaramente anti-democratiche. E questo lo sanno tutti.”
(da “Luce nera” di Ken MacLeod, Mondadori, aprile 2009)

PERCHE' IL SORTEGGIO?


Assemblee scelte a sorte

Una obiezione comune alla democrazia diretta è che su larga scala è impossibile dare ai cittadini poteri di decisione diretta senza compromettere l’equità politica.
Una risposta che risolve l’obiezione è che ciò è possibile con (...) la creazione di assemblee di cittadini con poteri decisionali i cui membri siano scelti a sorte.
Se l’assemblea è abbastanza grande, essa rifletterà la varietà di caratteristiche che si trova all’interno della popolazione, nessun gruppo sociale ne sarà escluso.
I componenti dovrebbero essere scelti a caso, estraendo a sorte dalle liste elettorali, e dovrebbe essere prevista la rotazione, ossia un tempo limitato di servizio, non ripetibile. Così ogni cittadino avrebbe un’uguale probabilità di essere scelto e se il sistema fosse esteso in tutti gli ambiti amministrativi, la probabilità sarebbe anche alta.
La scelta ad estrazione costituisce una valida alternativa alle elezioni competitive e sicuramente ridurrebbe il potere dei partiti politici sulle scelte dell’assemblea. Anche se oggi le elezioni competitive sono così usate da essere ritenute il solo sistema democratico per scegliere i legislatori, le assemblee estratte a sorte hanno una storia molto antica. Infatti ad Atene, dove nacque la democrazia nel V sec. a.C., sia il Consiglio dei 500 che quasi tutti gli amministratori della città, venivano scelti ad estrazione. Oggi il sistema ad estrazione viene utilizzato in determinati paesi, specie in quelli anglosassoni, per selezionare la giuria che giudica i processi.
Ma negli ultimi decenni si è fatto sempre più uso della selezione per estrazione nelle giurie dei cittadini, nelle consensus conferences e in generale nei processi partecipativi. La situazione più vicina alle Assemblee Legislative scelte a estrazione, si è avuta nelle Assemblee dei Cittadini per la Riforma Elettorale nel Columbia Britannico e nell’Ontario, in Canada. Tuttavia in questi due casi le raccomandazioni sono state poste a quesito referendario, anziché divenire direttamente leggi.
Nel Regno Unito è stato di recente proposto che la Camera dei Lords venga sciolta e rimpiazzata da una Assemblea dei Cittadini estratti a sorte. In questo caso non ci sarebbero costi aggiuntivi per la democrazia, ma la semplice sostituzione di rappresentanti per diritto ereditario, come è attualmente la Camera dei Lords, con rappresentanti estratti a sorte.
Nel libro verde del Consiglio d’Europa intitolato “The Future of Democracy”, c’è la proposta di creare un’Assemblea dei Cittadini con i membri selezionati a caso, che si incontri un mese l’anno per discutere e rivedere le leggi approvate dal parlamento di cui un terzo dei deputati abbiano fatto richiesta di riesame.
L’estrazione a sorte non crea un’assemblea di rappresentanti come noi li concepiamo, ossia di persone responsabili verso un determinato sottogruppo di elettori. Invece l’idea è quella di creare un’assemblea con una notevole differenziazione di esperienze e competenze su cui appoggiare le deliberazioni. Diversamente da oggi i cittadini che vengono estratti a sorte per partecipare a un’Assemblea dei cittadini, non potrebbero trasformare questo impegno in una carriera.
L’uso dell’estrazione a sorte realizza il principio democratico che i cittadini possono realizzare le leggi a cui poi loro stessi poi devono ubbidire. Le Assemblee dei Cittadini estratti a sorte possono essere adatte a situazioni in piccola scala e in grande scala, fino a livello nazionale e oltre.
È possibile fare in modo di assicurare l’uguaglianza dei sessi, la presenza di gruppi marginalizzati, e la provenienza da ogni area geografica. I costi dipendono dalle assemblee che si vogliono realizzare e dal fatto se sostituiscono una camera già esistente (Camera dei Lords nel Regno Unito o il Senato in Italia).


Difetti della democrazia rappresentativa

Non rappresentazione
Le persone elette come rappresentanti non rappresentano demograficamente il paese. Sono spesso più ricchi e più educati, c’è una predominanza dei maschi e della razza maggioritaria, del gruppo etnico e della religione più diffusi, rispetto a un campione estratto a caso dei cittadini di quel paese. Spesso ci sono delle professioni che predominano, come quella degli avvocati in Italia o degli impiegati in Danimarca.

Conflitti di interesse
Non sempre gli interessi degli eletti coincidono con quelli dei loro elettori. Ad esempio gli eletti votano le loro retribuzioni. Il loro interesse è che il loro salario sia il più alto possibile, l’interesse dell’elettore è quello che sia il più basso possibile, visto che il salario degli eletti è pagato con le tasse dei cittadini. In Svizzera, uno dei pochi paesi al mondo dove la retribuzione degli eletti è soggetta a referendum popolare, lo stipendio degli eletti è uno dei più bassi d’Europa.

Corruzione
La concentrazione del potere che è caratteristico nella democrazia rappresentativa, facilita la creazione della corruzione. è più facile corrompere una sola persona, o un gruppetto di persone che decidono su un determinato argomento, piuttosto che tutto il popolo.

Partiti politici e oligarchia
Per partecipare alle elezioni ed essere eletto, non bastano solo le qualità umane del candidato, ma bisogna far parte di una struttura organizzata, con conoscenze e soldi, chiamata partito. A volte le idee del candidato coincidono al 100% con quelle del partito, a volte no. Chi fa parte di un partito fa parte di una élite, che si contende il potere in un sistema oligarchico, di pochi.

Clientelismo e nepotismo
Spesso gli eletti nominano in cariche pubbliche persone legate a loro da rapporti di fedeltà, di riconoscenza o di parentela, invece che in base alla loro competenza, con gravi danni all’erario e mancanza di capacità nei punti chiave dell’amministrazione pubblica.

Mancanza di trasparenza
Nella democrazia rappresentativa molte decisioni vengono prese tenendo all’oscuro i cittadini, con accordi di partito o di poteri economici.

Mancanza di rendicontazione
Gli eletti sono liberi in base alla Costituzione di agire come preferiscono. Le promesse fatte prima delle elezioni sono spesso disattese e a volte gli eletti agiscono diversamente dai desideri dei loro elettori. Spesso poi alle elezioni ci si basa su slogan che non dicono quasi niente delle intenzioni reali del candidato.

La classe sociale dei politici
Dal libro “La classe politica” di Gianfranco Pasquino: “...la classe politica offre notevoli esempi di conformismo e scarsi esempi di indipendenza, notevole rispondenza alle direttive di alcuni dirigenti e scarsa attenzione alle preferenze della maggior parte degli elettori. (…) Il problema è che un po’ ovunque la classe politica cerca non soltanto di mantenere il suo potere, anche quello, pur limitato, di quando si trova all’opposizione, ma cerca altresì di aumentare i suoi privilegi, di aumentare i fondi a sua disposizione sotto forma di indennità di carica e di finanziamenti e rimborsi per le campagne elettorali e per le organizzazioni politiche e partitiche, e di sfuggire alla legge. E ciascuno dei componenti della classe politica lo fa cercando, e troppo spesso trovando, complicità, ovvero, come ho già scritto, omertà, negli altri componenti della classe politica: uno scambio di favori a futura memoria; e cerca di procurarsi altre posizioni gratificanti per quando sarà costretto ad abbandonare le cariche elettive più propriamente politiche. Questi uomini e, più raramente, queste donne, di mezz’età, mediamente più istruiti delle loro cittadine-elettrici e elettori, divenuti benestanti grazie alla politica e, almeno nel loro ambiente, riveriti, esibiscono talvolta persino un po’ di disprezzo per i loro concittadini e soprattutto sembrano convogliare scarso rispetto per quelle leggi che pure hanno contribuito a scrivere. È allora che nasce irreprimibile la critica, generalizzata e legittima, ma talvolta eccessiva, diretta contro la classe politica.”
(da: “Democrazia dei cittadini” di Paolo Michelotto, Troll Libri, 2008.
La versione in pdf è scaricabile gratuitamente dal sito: www.paolomichelotto.it)


Paolo Michelotto è nato e vissuto a Vicenza fino al 2002, quando si è trasferito a Rovereto.
Vorrebbe la migliore delle società possibili e ritiene che per ottenere questo non occorrano rivoluzioni, ma basti prendere esempio dalle pratiche migliori e dalle esperienze del mondo dove la democrazia è viva e funziona. Ovunque c’è qualche idea buona, la si può studiare e cercare di applicare anche da noi.
E' profondamente convinto che i cittadini siano saggi e capaci di amministrarsi al meglio.
E' autore del libro “Democrazia dei Cittadini”.
Fa parte dell’Associazione PartecipAzione Cittadini Rovereto il cui blog è:
http://www.cittadinirovereto.it

venerdì 21 novembre 2014

PENSIERI, PAROLE E PRATICA

     La demarchia è una forma di democrazia, alternativa alla democrazia elettiva, in cui lo stato è governato da comuni cittadini estratti a sorte. Era il principale metodo di governo dell’antica Atene, così come di molte città-stato italiane del primo Rinascimento. Al contrario delle elezioni, le quali erano conosciute per la loro tendenza ad avvantaggiare la classe aristocratica, il sorteggio estirpava alla radice il rischio che individui con troppo potere e carisma potessero facilmente ignorare i reali interessi delle classi più deboli. Esempi storici del suo uso però sono rari e poco studiati. Ancora oggi, nonostante la vistosa crisi di credibilità della classe politica, non ci sono virtualmente discussioni sull’argomento e le informazioni che una persona interessata può trovare sono carenti. È per cercare di colmare queste lacune che abbiamo creato questo sito. Ci sono molte ragioni per credere che il sorteggio, se usato in modo corretto, abbia le potenzialità di risolvere molti dei problemi e delle contraddizioni di cui soffrono le attuali democrazie e di rendere il popolo realmente sovrano. In una demarchia ogni cittadino, indipendentemente da razza, sesso, religione ed estrazione sociale, ha la stessa probabilità di essere sorteggiato e poter dare il proprio contributo alla società. È un sistema in cui gli interessi dei singoli cittadini, indipendentemente dalla provenienza, valgono veramente qualcosa, dove sono loro a prendere le decisioni. In modo diretto. Nelle democrazie attuali, al contrario, il potere dei cittadini è solo simbolico. Trasmesso ai rappresentanti che poi, il più delle volte, seguono gli interessi propri, di chi li finanzia o di chi in un modo o nell’altro ha il potere di farli rieleggere. Questi interessi purtroppo corrispondono solo raramente a quelli degli elettori, che hanno informazioni e scelte di voto troppo limitate per poter veramente influenzare le decisioni prese. Se inizialmente l’idea di lasciare al caso scelte così fondamentali può sembrare assurda, questa preoccupazione risulta infondata di fronte a un’analisi più approfondita. 
     La legge dei grandi numeri ci dice che un organo sorteggiato, se sufficientemente numeroso, rispecchierà le opinioni della popolazione con buona approssimazione. Verosimilmente molto di più di quanto non avvenga nel caso di un organo eletto, visto che anche il risultato del voto è influenzato da numerosi fattori casuali, i quali pur essendo anch’essi molto imprevedibili sono, in parte, manipolabili. Un’altra frequente preoccupazione riguarda le inadeguate competenze del cittadino medio nelle materie sulle quali si troverà a prendere decisioni. Il cittadino sorteggiato dovrà appoggiarsi a esperti esterni per guidare le proprie decisioni. Questo avviene, o dovrebbe avvenire, anche per i politici attuali oltre che per i cittadini, i quali votano un politico del cui operato e giudizio si fidano, almeno idealmente. 
     La demarchia è quindi un sistema perfetto che risolverà tutti i nostri problemi? Forse no, ma solo una discussione schietta e una analisi approfondita e plurale potrà svelarci qualcosa sulle sue reali potenzialità.
     La realistica possibilità che possa veramente funzionare meglio, che possa riuscire a risolvere anche solo alcuni dei problemi strutturali che affliggono le attuali democrazie, dovrebbe essere motivo sufficiente per non lasciare che il tema rimanga inesplorato. 
(http://blog.demarchia.info/)



Ecco un saggio che mi ha davvero colpita: "Democrazia in diretta", edito da Feltrinelli e scritto da Nadia Urbinati. Un'italiana che insegna Teoria politica alla Columbia University. Un libro che parte dall'Atene classica per arrivare ai giorni nostri. Una storia della democrazia come sistema di governo delle crisi, di quei momenti storici in cui il popolo, il cittadino o una classe sociale chiedono una redistribuzione del potere politico ed economico.
(...) La vera democrazia non può accettare la professionalizzazione della politica e deve offrire solo incarichi temporanei. A tale proposito, il mantra ricorrente è quello del candidato "esperto, competente". E sei poi si tratta di un "corrotto"? Non sarebbe meglio un "neofita onesto"? Gli ateniesi usavano il sorteggio per eleggere i componenti dell'Assemblea, il massimo organo di governo della città-stato. E noi? Come possiamo eleggere persone che siano interessate soltanto al bene comune e non alla propria poltrona?
(José Rallo, rubrica su Huffington Post)



    A chi, deluso e affranto, (...) è pronto a buttare il bambino con l’acqua sporca, mandando tutti e tutto al diavolo, rispondo con la spinta positiva che comunque arriva dall’Islanda. Da chi ha deciso di partecipare alla redazione della Costituzione con forme inedite di democrazia, sino a chi propone il sorteggio a sorte dei candidati in occasione delle elezioni, come il movimento di Kristinn Már Ársælsson. Prendendo in prestito le parole di Maurizio Tani, un ottimo osservatore in quanto italiano che vive e lavora da oltre 10 anni a Reykjavik, c’è da rilevare che la rivoluzione islandese si è concretizzata “nel lavorio di rafforzamento della collettività che viene fatto, da sinistra e da destra (…) con forme che potrebbero scandalizzare un italiano ma che qui sono normali.” Come essere cittadini del mondo “rispettosi dei diritti di tutti”, ma amando al contempo “la propria terra” e curandone “l’identità (lingua, cultura, storia, monumenti)”.
(Ferro Ferrarese, “L’Islanda nella trappola dell’Unione Europea”, blog Teste Libere)



     Nel 2009, un anno dopo l’esplodere della crisi finanziaria che aveva messo in ginocchio l’economia islandese, le organizzazioni della società civile avevano preso l’iniziativa di istituire un’assemblea (con maggioranza sorteggiata su base casuale) per discutere e sviluppare suggerimenti in vista di una riforma costituzionale. A giugno del 2010 il Parlamento islandese, l’Althing, aveva approvato la legge 90/2010, che istituiva un’assemblea costituzionale consultiva cui veniva attribuito l’incarico di revisione della Costituzione. L’obiettivo era quello di coinvolgere i cittadini nell’elaborazione di una nuova Costituzione, in parte con il metodo del crowdsourcing. A tal fine erano state create due istituzioni: un forum nazionale composto da 950 cittadini islandesi, perlopiù estratti a sorte, che si pronunciò d’accordo sulla necessità di una nuova Costituzione; e un consiglio costituzionale di 25 membri, eletti con suffragio universale. A parlamentari ed esponenti di partiti politici, però, non era stato permesso di candidarsi, cosicché tra i 25 membri eletti del consiglio non c’era nessun politico di professione. Il consiglio ha approvato la nuova Carta costituzionale dopo averne discusso direttamente con gli islandesi via Facebook e Twitter.
     Gli islandesi si sono affidati all’estrazione a sorte come strategia di selezione alternativa alle elezioni per scegliere i membri dell’assemblea che avrebbe discusso le proposte di riforma costituzionale (ma hanno indetto un’elezione per scegliere invece i componenti del Consiglio Costituzionale vero e proprio). (...) Il sorteggio è una particolarissima forma di selezione associata alla democrazia fin dall’antichità perché, contrariamente alle elezioni, rappresenta un metodo di selezione del personale pubblico dal carattere autenticamente egualitario. Il sorteggio non divide l’insieme dei cittadini tra i pochi che decidono in merito alle leggi e i molti che le votano, ma attua invece il principio democratico per cui tutti dovrebbero avere la possibilità di governare ed essere governati a turno e senza discriminazione di capacità. Dopo le repubbliche umaniste italiane (che ne fecero un uso massiccio), il metodo del sorteggio è scomparso dalla politica (ma non dalla pratica giuridica), spianando la strada alla modalità elettorale di selezione. Oggi, in concomitanza con la crisi dei partiti e il ricorso di massa a Internet, il metodo del sorteggio pare ritrovare la sua utilità.
(Nadia Urbinati, “La crisi europea tra populismi  e nuove costituzioni”
su Reset, 8 aprile 2014) 




In un’intervista al Corriere della Sera, il Principe dei cantautori italiani racconta tutta la sua delusione per la politica, delusione che lo ha spinto a decidere di non votare più. “Alle ultime elezioni - spiega Francesco De Gregori - ho votato Monti alla Camera e Bersani al Senato. Sono contento di come è andata? No. Oggi non so cosa farei. Probabilmente non voterei. Con questo sistema, tanto vale scegliere i parlamentari dall'elenco del telefono”.



     E se invece di votarli, i parlamentari li estraessimo a sorte? Mi rifaccio qui ad un paio di notizie lette negli ultimi mesi. La prima notizia è la nascita del Partito Lotteria, che ha già un suo efficacissimo slogan: Siam pronti alla sorte.
     L’obiettivo è la democrazia pura: se a scegliere le candidature non è il giudizio dell’uomo, ma il fato, si può raggiungere statisticamente la rappresentazione più completa della popolazione.
     Il Partito Lotteria non dispone di un programma e non vuole averlo. Una volta diventati parlamentari, si può decidere di fare qualsiasi cosa.
     Si rifanno alla democrazia ateniese di Clistene e a quella della Repubblica Marinara di Venezia e sul loro profilo Facebook non mancano riferimenti a situazioni simili già in atto in altri Paesi.
     La seconda notizia è la pubblicazione di un libro, “Democrazia a sorte”, che si rifà ad uno studio portato avanti da alcuni ricercatori dell’Università di Catania. Anche loro citano la democrazia ateniese e anche loro riportano un caso molto recente di democrazia diretta, ossia ciò che è successo in Islanda.
     La conclusione principale di “Democrazia a sorte” è che parlamentari indipendenti approverebbero meno leggi rispetto a parlamentari appartenenti a partiti politici, i quali farebbero più in fretta perché si devono limitare a seguire le indicazioni del partito cui appartengono. Le leggi approvate dai primi sarebbero però più efficienti, proprio perché formulate da cittadini finalizzati al bene comune e non al bene del partito.
(Gaberr, www.abcinteractive.it)



     Il Partito Lotteria si ispira ai valori politici della demarchia. Crede che il governo del Paese debba essere garantito da cittadini estratti a sorte nel solco della tradizione democratica ateniese di Clistene e della Repubblica Marinara di Venezia.
     Il Partito Lotteria crede che il metodo dell’estrazione casuale sia l’unico in grado di garantire la migliore rappresentanza statistica e politica della popolazione in quanto non suscettibile alle distorsioni proprie della democrazia elettiva.
     Il Partito Lotteria nasce per migliorare la condizione economica dei propri eletti scelti in modo trasparente attraverso la tecnica del sorteggio.
Partito Lotteria. Contatti: Segreteria (dott.ssa Vivacqua), segreteria@partitolotteria.org
Ufficio organizzativo, organizzazione@partitolotteria.org
Ufficio stampa, stampa@partitolotteria.org
Comunicazioni generali, info@partitolotteria.org



     Una serie di scandali nel mondo politico e nel mondo finanziario in Estonia ha dato il la a una novità interessante, che l'opinione pubblica ha apprezzato. Il presidente Toomas Henrik ha deciso di convocare una riunione con rappresentanti dei partiti politici e della società civile, oltre a vari opinion leader. Il presidente, dopo la tavola rotonda, ha annunciato a sorpresa che per tre mesi, fino a marzo, i cittadini parteciperanno alla scrittura di una nuova regolamentazione della vita politica: elaboreranno loro le leggi.
     Da un paio di giorni è online il sito Rahvakogu.ee (“Assemblea dei cittadini”), sul quale i cittadini estoni possono analizzare nei dettagli l’attuale legge elettorale e sui partiti e, soprattutto, possono proporre emendamenti. Il quotidiano Postimees spiega le ragioni di questa scelta innovativa: "Non c’è bisogno di essere un politologo o un giurista. I testi sono presentati nel modo più semplice possibile".
     I cittadini possono fare proposte concrete per un mese sul mondo del lavoro, sul finanziamento pubblico dei partiti politici e sulla legge elettorale. Urmo Kübar, direttore dell’Unione delle associazioni indipendenti: "Il senso di questa iniziativa è affermare che nessun uomo da solo è intelligente quanto un popolo intero".
     Da febbraio in poi una task-force di esperti analizzerà tutte gli spunti proposti sul sito, e poi a marzo 500 estoni, selezionati a campione in tutte le categorie sociali, parteciperanno ad alcune giornate di discussione. I risultati delle tavole rotonde non rimarranno in qualche archivio, ma saranno posti all’ordine del giorno del governo estone.
(“In Estonia i cittadini scrivono le nuove leggi”, www.today.it)



     Ai più può sembrare strano, ma l’equazione “democrazia uguale elezioni” è abbastanza recente, visto che si è imposta solo con la Rivoluzione Americana.
     Nell’antichità classica, le elezioni venivano considerate uno strumento tipico dell’oligarchia, presupponendo una selezione della classe dirigente che secondo i greci avrebbe tolto a tutti la possibilità di governare la polis.
     Per i greci, lo strumento principe della democrazia era il sorteggio: non era solo una posizione teorica. Ad Atene, ad esempio, il Consiglio dei 500 (Bulé), comitato permanente di governo in nome dell’ecclesia (assemblea generale del popolo) era formato sorteggiando dalle 10 tribù territoriali 50 delegati a cadauna. Ovviamente, per evitare situazioni imbarazzanti, i sorteggiati dovevano superare un’esame.
     Meccanismi analoghi furono in uso nei comuni medievali. A Firenze, per esempio, era prassi comune distribuire le cariche per sorteggio.
     Idee che a noi moderni possono sembrare strampalate, ma che avevano una loro logica, nel volere minimizzare il potere di lobby e di gruppi di interesse.
(Alessio Brugnoli, http://ilcantooscuro.wordpress.com)


Nell’immagine qui accanto, una ricostruzione del Kleroterion.
Era uno strumento usato ad Atene durante il periodo della democrazia per scegliere casualmente, tra seimila aventi diritto, i cittadini che avessero il compito di comporre giurie giornaliere.
Consisteva in una superficie piatta con diverse cavità che contenevano lamine - pinaika - in bronzo, successivamente in legno, con nome, patronimico e nome del demos (villaggio) da cui provenivano (una sorta di documenti di identità) dei cittadini, e in un tubo colmo di sfere di diversi colori che, una volta estratte, avrebbero determinato quali cavità erano da scegliere.



     Abbiamo sopravvalutato le elezioni, considerandole una sorta di sinonimo della democrazia. Sostanzialmente l’unico modo attraverso il quale la democrazia può essere esercitata. Siamo tutti diventati dei fondamentalisti delle elezioni e abbiamo perso di vista la democrazia. L’abbiamo visto anche con le primavere arabe: la rivolta dell’Egitto ha portato con sé elezioni, ma non una democrazia accettabile.
     Siamo alle prese con la democrazia da circa 3 mila anni, ma lo strumento delle elezioni lo usiamo da soli 250. Le elezioni sono state inventate, dopo le rivoluzioni americana e francese, non certo per fare avanzare la democrazia, ma semmai per arrestare e controllare i suoi progressi. Il voto ha permesso di sostituire a un’aristocrazia ereditaria una nuova aristocrazia elettiva.
     Le elezioni hanno portato a vere iniezioni di democrazia fintanto che si allargava il suffragio, esteso a tutti gli uomini e poi a tutte le donne.
     Da decenni ormai il percorso si è di fatto invertito e, soprattutto in Occidente, i cittadini sono stanchi di una partecipazione fondata quasi solo sul voto. C’è una “sindrome di stanchezza democratica” che porta a individuare quattro diagnosi possibili: colpa dei politici, della democrazia, della democrazia rappresentativa o della democrazia rappresentativa elettiva.
     A dare la colpa ai politici sono i populisti. Da Silvio Berlusconi a Geert Wilders e Marine Le Pen ai nuovi arrivati Nigel Farage o Beppe Grillo. Chi critica la democrazia invece vanta i successi della tecnocrazia, evidenti in Cina per esempio, secondo uno schema opposto rispetto ai populisti: invece di privilegiare la legittimità, i tecnocrati puntano all’efficienza. Oppure, ci sono quelli che incolpano la democrazia rappresentativa, come fanno i movimenti come “We are the 99%” e gli “Occupiers” americani o gli “Indignados”. Io invece me la prendo con le elezioni, o meglio con la pigrizia di ridurre tutto al voto.
     Le elezioni sono il combustibile fossile della politica: un tempo erano in grado di stimolare la democrazia, ma ora provocano problemi giganteschi. La nostra democrazia ottocentesca non è più adatta ai tempi. Alcuni esperimenti di estrazione a sorte, negli ultimi anni sono stati condotti un po’ ovunque nel mondo, dalla provincia canadese della British Columbia all’Islanda al Texas a, più recentemente, l’Irlanda.
     A chi critica la mancanza di competenza di persone sorteggiate, dico: perché, quale competenza hanno oggi la maggior parte dei deputati nei nostri Parlamenti? I migliori di loro usano la legittimità offerta dallo status di eletti per chiedere informazioni e consigli agli esperti, e infine decidere a ragion veduta. Niente che non potrebbe fare una persona tirata a sorte. Con il vantaggio fondamentale che i cittadini tirati a sorte sarebbero forse più inclini a dare priorità al bene comune, e non alla propria rielezione.
Altri studiosi, oltre a me, si stanno interessando a questo tema: Habermas, l’americano James Fishkin e i francesi Bernard Manin e Yves Sintomer. È il momento di pensare a una democrazia deliberativa e non più solo elettiva. Quando John Stuart Mill proponeva il voto alle donne, a metà dell’Ottocento, lo prendevano per pazzo. Le novità non ci devono spaventare».
(David Van Reybrouck, storico belga, autore di “Contro le elezioni”;
intervista al Corriere della Sera)


A “Berlino, luogo emblematico per i movimenti sociali benché in regresso. (...) all’avvio, a livello federale, di una politica di riqualificazione urbana basata sulla cooperazione tra i Bund, i Lander e i comuni”, sono stati coinvolti comuni cittadini. “I partecipanti, dopo aver lavorato collegialmente per settimane, pervengono all’approvazione di micro-progetti di riqualificazione urbana. La particolarità dell’esperienza berlinese, rispetto a molte altre, risiede nel metodo dell’estrazione a sorte di una parte dei partecipanti. Questa si attiva secondo una visione molto ponderata del sorteggio, evidenziandone vari pregi quali, ad esempio, la possibilità di coinvolgimento di comuni cittadini che poi vengono sufficientemente informati sotto vari punti di vista, per opera degli animatori della partecipazione. Si può evitare così che intervengano professionisti della politica e della partecipazione (chi partecipa sempre); si può evitare la corruzione, si può favorire la rappresentatività dei cittadini da un punto di vista sociologico, con riguardo ad alcuni criteri guida come l’età, la scolarizzazione, il livello sociale e altro.”
(Carlo Di Marco, “Democrazia, autonomie locali e partecipazione”,
2009, Wolters Kluwer Italia)